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Argomento:
Metodologia dell'allenamento del calcio
Data:
2001
Testata:
Il Nuovo Calcio. 113:54-66,2001
 
Perche’ mai piu’ di due ?
di Gian Nicola Bisciotti

Quando ho ricevuto la richiesta dell’amico Ferretto di scrivere "un qualche cosa" che avesse a che fare con il fenomeno della fatica, il caso ha voluto che avessi appena finito un articolo proprio su questo tema specifico, il che mi ha facilitato in primo luogo di molto il compito e secondariamente mi ha permesso di poter scrivere in modo semplice e, speriamo, abbastanza comprensibile a tutti, su di un fenomeno, come quello della fatica, invero molto complesso, ma che mi sempre attratto proprio per questo motivo. La richiesta di Ferretto è stata molto precisa "cerca di dare una risposta al fatto che attualmente risulti di fatto impossibile ad un calciatore fornire una prestazione di livello per un periodo di tempo relativamente lungo", aggiungendo "bisognerebbe cercare di spiegare come mai non è possibile fornire una buona prestazione per più di due partite consecutive". Perché mai più di due? Bella domanda e difficile risposta. Non pretendo ovviamente di avere la risposta richiestami , mi sembrerebbe quantomeno presuntuoso, non posso quindi che cercare di formulare una serie di ipotesi, speriamo plausibili, che tentino perlomeno di avvicinarsi per quanto possibile alla verità, sempre ammesso che una verità esista.

In primo luogo occorre ricordare come il fenomeno della fatica sia di tipo multifattoriale, intendendo con questo termine che dipende appunto da molti fattori, alcuni dei quali non ancora del tutto chiari, ed interagenti tra loro in modo complesso. Pretendere di spiegare il fenomeno dell’insorgenza della fatica attraverso un unico fattore, come ad esempio la produzione di lattato, è oltremodo limitativo e fondamentalmente errato.

Classicamente si tende a suddividere il fenomeno in fatica periferica e fatica centrale attribuendo alla prima cause prevalentemente metaboliche la cui sede è appunto il muscolo (per questo motivo viene appunto definita fatica periferica), ed alla seconda invece motivazioni essenzialmente di tipo neurale. In altre parole con il termine di fatica nervosa o centrale si intende tutto quel complesso di fattori che determinano la diminuzione delle capacità di lavoro muscolare indipendentemente dai fattori intramuscolari e/o metabolici, nella fatica centrale il problema è invece legato alla trasmissione del segnale nervoso che dal cervello arriva al muscolo.Tuttavia il quadro generale non è sempre così perfettamente distinguibile ed i vari fattori scatenati si sovrappongono molto spesso in maniera indistinguibile, rendendo la situazione di difficile lettura interpretativa.

Nel corso degli ultimi trent’anni il concetto di fatica si è piuttosto modificato ed in un certo senso "evoluto". Prima degli anni ’70 infatti, fisiologicamente la nozione di fatica era essenzialmente un sinonimo dell’esaurimento delle scorte energetiche, prevalentemente dell’ATP e dell’ accumulo di sostanze inibitrici nei confronti dei meccanismi di ripristino energetico (Westerblad e coll., 1991). Solamente a partire dagli anni ’80 si è cominciato ad interpretare il fenomeno come multifattoriale e reversibile, considerando anche, sia la sua diversa velocità, che i suoi differenti termini d’insorgenza. Più tardi, a cominciare dagli anni ’90, si è potuto assistere ad un crescente consolidamento dei concetti di plasticità muscolare, e si cominciato soprattutto a considerare tutto quel complesso di meccanismi rivolti all’ ottimizzazione della produzione di forza da parte del muscolo e della sua ricerca di un "attivazione economica", (Korge e Campbell, 1995).

Diversi ricercatori cominciarono a mettere in discussione il fatto che uno dei fattori scatenanti il fenomeno della fatica potesse essere costituito dalla mancanza di ATP, dal momento che la diminuzione di ATP viene efficacemente controbilanciata dalla sua rigenerazione anche nel muscolo affaticato. Perché allora il muscolo nel corso del lavoro va incontro al fenomeno dell’affaticamento?

Un grosso aiuto nello studio dei meccanismi che sono alla base della fatica periferica è stato costituito, verso la fine degli anni ’70, dall’avvento della Risonanza Magnetica Nucleare, grazie alla quale si è reso possibile lo studio non invasivo ed in tempo reale dei meccanismi energetici cellulari. Grazie all’avvento di questa nuova tecnica si è potuto dare vita a tutta una serie di modelli che hanno tentato e tentano tuttora di descrivere il fenomeno, che resta comunque molto complesso

Proviamo a passare velocemente in rassegna alcune di quelle che possono essere le cause scatenanti della cosiddetta "fatica periferica".

  1. L’alterazione della pompa sodio-potassio

    Nel muscolo esiste un sistema di "pompaggio" dall’interno all’esterno della fibra muscolare e viceversa, per quello che riguarda gli ioni sodio e gli ioni potassio. Questo sistema è di fondamentale importanza nella contrazione muscolare. In condizioni di lavoro intenso e prolungato questo meccanismo può essere perturbato e quindi essere una delle cause dell’affaticamento del muscolo.

  1. Il ruolo del calcio
  2. Un altro ione essenziale durante la contrazione del muscolo è il calcio. Il lavoro prolungato ed intenso può portare, sia ad una sua diminuzione, che ad un abbassamento della sensibilità del muscolo nei suoi confronti. Anche questo secondo fattore può portare all’insorgenza della fatica periferica

  3. Il ruolo dell’acidosi

L’ambiente acido che viene a stabilirsi nel muscolo a causa delle produzione di lattato causata da un lavoro intenso, è il principale accusato nel caso della fatica periferica, ma forse ingiustamente, o meglio è accusato di troppe colpe forse tutte non sue…

L’elenco delle conseguenze fisiologiche che i vari Autori attribuiscono all’acidosi è molto lungo: diminuzione dell’attività della pompa sodio/potassio diminuzione della fissazione del calcio sulla troponina, dato il suo antagonismo con gli H+, diminuzione nella formazione del numero di ponti acto-miosinici, diminuzione della velocità di accorciamento delle fibre ecc.ecc. L’elenco sarebbe veramente troppo lungo e quindi lo tagliamo, inoltre tutto questo catastrofico quadro verrebbe ulteriormente aggravato dall’aumento di temperatura che si registra nel muscolo durante il lavoro.

Tuttavia molti ricercatori "scaricano di molte responsabilità" il lattato prodotto dal muscolo nell’insorgenza di questo quadro. In effetti il lattato resta un responsabile, ma non il maggior accusato nell’abbassamento del pH , ossia dell’aumento dell’acidificazione del muscolo.

Vi sarebbero anche altri fattori che concorrerebbero all’affaticamento del muscolo come il ruolo dei fosfati inorganici o quello dell’ADP, solo per citarne alcuni. Non voglio dilungarmi troppo, mi sembra di essere già stato sufficientemente "pesante". Vorrei solo sottolineare che, anche solamente da queste brevi note, si può facilmente capire come il fenomeno sia complesso e come sia impossibile trascinare sul banco degli imputati un solo colpevole senza lasciarne a piede libero molti altri.

Non parleremo della fatica centrale, sarebbe troppo lungo e complicato, vale comunque la pena di ricordare che questa è riconducibile sostanzialmente all’azione di alcune particolari sostanze denominate "neuromediatori centrali", ossia sostanze in grado d’intervenire sul passaggio dello stimolo che proviene dal Sistema Nervoso Centrale ed arriva al muscolo. Tra queste possiamo ricordare l’ammoniaca o la serotonina, ricordando comunque che anche in questo caso le ipotesi sono molte e talvolta discordanti.

Un modello tridimensionale della fatica

Quando per scrivere l’articolo sulla fatica di cui accennavo all’inizio, stavo documentandomi sull’argomento, ho trovato particolarmente interessante un modello a "tre dimensioni" del fenomeno della fatica, avanzato recentemente da alcuni ricercatori, e credo che valga la pena spendere due parole in proposito.

Secondo Alcuni autori il rapporto tra l’intensità dello sforzo e la sensazione di fatica può essere anche interpretato attraverso tre modelli fortemente interagenti tra loro.

Il primo modello è il già descritto modello "classico" della fatica periferica, denominato appunto "modello periferico", nel quale i fattori regolatori e/o inibitori sono esclusivamente di ordine metabolico (Kay e coll., 2001; Kirkendall, 1990; Fitts, 1994.).

Nel secondo modello, la cui traduzione italiana suona come "modello centrale-teleoanticipatorio" , il meccanismo di controllo della fatica funziona essenzialmente come un dispositivo di sicurezza che viene attuato grazie un meccanismo subcosciente a livello cerebrale. Questo meccanismo di regolazione viene modulato, a livello cerebrale sulla base di tutta una serie di informazioni, sia centrali, che periferiche, ed ha come scopo quello di preservare l’integrità strutturale della fibra muscolare, prevenendo possibili danni irreversibili a quest’ultima attraverso una riduzione od un arresto totale dell’attività. Nel modello "centrale-teleoanticipatorio", il cervello svolge il ruolo di principale regolatore dell’intensità e della durata dell’esercitazione, che viene mantenuta ad un grado sub-massimale prefissato in modo tale che il sistema periferico, ossia il muscolo, non sia mai utilizzato a livelli massimali (St Clair Gibson e coll., 2001; Kay e coll., 2001.)

In questo secondo modello quindi il fenomeno della fatica può essere considerato come un vero e proprio "atto anticipatorio di sicurezza", che abbia lo scopo di prevenire, sia un eccessivo accumulo di metaboliti, che un esagerato consumo di scorte energetiche. Questo tipo di meccanismo protettivo, potrebbe ad esempio spiegare il fatto che nel muscolo la concentrazione di ATP non scenda mai al di sotto del 60-70% dei valori di riposo, anche durante un esercizio di tipo esaustivo (Fitts, 1994.). Il modello "centrale-teleoanticipatorio", sarebbe quindi il responsabile del decremento dell’intensità dell’esercizio anche in presenza di sufficienti riserve energetiche, per cui la manifestazione di fatica sarebbe il risultato di un comando inibitorio, derivante da una sorta di "calcolo mentale". Esiste poi un terzo tipo di modello denominato di "modello di discussione-cognitiva", nel quale sarebbe la sensazione di fatica stessa che, a livello cosciente, utilizzando le antecedenti esperienze come secondo termine di paragone, regola l’intensità dell’esercizio. Un esempio pratico che ci possa chiarire il ruolo di questo terzo modello può essere quello di un’attività sportiva svolta in presenza di spettatori, in questo caso l’attività stessa può risultare spesso meno gravosa e la percezione dello sforzo minore, proprio perché la motivazione generata dalla fonte esterna, in questo caso gli spettatori, può ridurre gli input afferenti periferici provenienti dalla muscolatura (St Clair Gibson e coll., 2001). Senza entrare in ulteriori e complicati particolari, direi che questo modello tridimensionale, ci sottolinea il ruolo fondamentale della psiche nella percezione del fenomeno della fatica. Molte volte infatti uno sforzo sostanzialmente identico può sembrarci sopportabile, od al contrario, estremamente gravoso, in rapporto alla situazione nella quale ci troviamo od a simili precedenti esperienze. Molte volte quindi la fatica non è un fenomeno obbiettivo ma bensì estremamente soggettivo, per dirla in parole povere, la fatica molto spesso non è quella che è ma… quella che sembra.

Perché nel calcio la regola sembra essere mai più di due?

Torniamo alla domanda iniziale postami da Ferretto, come è possibile spiegare il fatto che nel calcio la regola sembri essere che non sia possibile effettuare più di due prestazioni ad alto livello? Ma soprattutto come mai questo sembrerebbe esistere solamente nell’ambito del calcio mentre in altre attività sportive la prestazione sembrerebbe essere più stabile? Forse la risposta potrebbe essere nell’analisi del diverso sforzo richiesto nelle differenti attività sportive e quindi dal diverso effetto cumulativo del fenomeno della fatica? Proviamo ad analizzare il modello prestativo di alcune tra le principali discipline nell’ambito degli sport di squadra:

Pallacanestro

Nel basket la produzione di lattato è compresa, secondo diversi Autori tra 2.7 e 6,4 mmol . l-1, con una media di 4.3 ± 1,3 mmol . l-1. La corsa in avanzamento a ritmo lento e mediamente di 1175 metri per i play makers , 1300 per le ali e solamente di 350 metri per i centrali. Se si considera la corsa in avanzamento a ritmo medio, questi valori passano a 1125 per i play makers, 1850 metri per le ali e 1700 metri per i centrali. Infine se consideriamo la corsa in avanzamento a ritmo veloce questi valori passano a 1200, 1050 e 725 metri sempre in rapporto ai tre ruoli citati.

La media generale può essere quindi considerata pari a 1163 ± 453 metri.

Per quello che riguarda la frequenza cardiaca media registrata nel corso della competizione ritroviamo 175 ± 15 p/m per i play makers, 171 ± 13 p/m per le ali e 170 ± 13 per in centrali, con una media generale uguale a 172 ± 2 p/m.

Il consumo di ossigeno registrato in competizione è pari all’80 ± 2% del VO2 max.

Pallavolo

La produzione di lattato in competizione è mediamente di 2.40 ± 0.47 mmol . l-1 .

La frequenza cardiaca media in gara uguale a 144 ± 11 p/m.

Il consumo di ossigeno registrato in competizione è mediamente il 55 ± 3.1% del VO2 max.

Rugby

La produzione di lattato nel rugby è mediamente 7.6 ± 2 mmol . l-1 .

La media di percorrenza è 6.7 ± 4 km , il range è in effetti notevole e va da mediamente dai 3.8 km per i giocatori del pacchetto di mischia ai 9.6 delle terze linee.

La frequenza cardiaca media durante la gara è pari a 145 ± 11 p/m.

La percentuale di VO2 max utilizzata in situazione di competizione è mediamente del 52 ± 5.6 % (Reilly, 1994), questo dato, in verità abbastanza sorprendente, è giustificato dal fatto che le azioni di gioco nel rugby sono molto brevi, il 56% è infatti inferiore ai 10’’ e solamente il 15% supera i 20’’ (Williams, 1976)

Pallamano

La produzione di lattato è uguale a 6.8± 4.3 mmol . l-1.

La media di percorrenza è di 5.5 ± 2 km

La FC media è pari a 177 ± 12 p/m.

Il consumo di ossigeno registrato in competizione è pari al 79 ± 2.7% del VO2 max.

Proviamo a prendere questi pochi dati, che ci danno un visione, sicuramente parziale, ma comunque già discretamente significativa, dello sforzo fisiologico richiesto durante la prestazione agonistica in queste discipline sportive, e confrontiamoli agli stessi dati relativi al calcio. Ricordiamo soltanto che nel calcio la produzione di lattato registrabile in partita va dalle 10 mmol . l-1 (Agnevik, 1975) alle 4.4 (Bangsbo, 1991) con una media di 5.6 ± 2.3 mmol . l-1.

La distanza media percorsa in gara è di 10.800 ±1937 metri, anche se le differenze di percorrenza trai i diversi ruoli sono significative.

La FC di competizione è mediamente pari a 175 ± 9 p/m (Balsom, 1999) ed infine la percentuale di VO2 max utilizzata in gioco è mediamente del 75 ± 3 %.

 

Lattato

(mmol . l-1)

Distanza percorsa (m)

FC (p/m)

Utilizzo VO2max (%)

Calcio

5.6 ± 2.3

10.8000 ± 1937

175 ± 9

75 ± 3

Pallacanestro

4.3 ± 1.3

1163 ± 453

172 ± 2

80 ± 2

Pallavolo

2.40 ± 0.47

--------------------

144 ± 11

55 ± 3.1

Rugby

7.6 ± 2

6700 ± 4000

145 ± 11

52 ± 5.6

Pallamano

6.8 ± 4.3

5864 ± 2000

177 ± 12

79 ± 2.7

Tabella 1 : Valori medi e deviazione standard (±) di produzione di lattato, distanza percorsa, FC ed utilizzo di VO2max, registrati nel corso della competizione, nel calcio, nella pallacanestro, nella pallavolo , nel rugby e nella pallamano. In rosso sono evidenziati i valori medi più elevati registrati nell’ambito del parametro considerato.

Come è possibile osservare dalla tabella 1, il calcio presenta dei valori maggiormente elevati, rispetto agli altri sport considerati, solamente per ciò che riguarda la distanza media percorsa in competizione, anche se considerando la notevole variazione standard del valore di percorrenza riguardante il rugby (± 40000 metri), si può considerare questo parametro molto simile per le due discipline. Possiamo quindi dire che non vi sarebbe nessuna ragione fisiologica apparente, almeno per ciò che riguarda questi indicatori, che possa giustificare una maggiore propensione al fenomeno del sovraffaticamento nel calcio. Il solo fatto della maggior distanza percorsa in competizione infatti non può essere assunto come giustificazione plausibile, anche se potrebbe, perlomeno in parte, spiegare il fenomeno di sovraccarico funzionale della muscolatura, che spesso sfocia nell’infortunio, così frequente nel calcio. Si potrebbero a questo punto addurre delle ragioni di tipo psicologico, probabilmente infatti è difficile mantenere una condizione mentale, in termini di giusta concentrazione, in presenza di numerosissimi impegni che oltretutto impongono un sovraccarico funzionale di tutto rispetto, ma non essendo questo il mio campo specifico d’intervento, rilancio la palla a chi si interessa di questo determinato aspetto della prestazione. Per cui la domanda postami da Ferretto, resta "una bella domanda senza purtroppo una precisa risposta", almeno per ciò che mi riguarda. Permettetemi in conclusione una digressione molto personale e molto poco scientifica: molte volte ho notato, seppur empiricamente, una forte correlazione tra la capacità di sopportare il dolore fisico (come ad esempio il poter comunque continuare a giocare anche dopo aver subito un trauma) e la capacità di sopportazione della fatica in senso lato, e quindi la capacità di avere una continuità di rendimento elevata. In questo caso, credo che tutti lo sappiano, i rugbisti sono dei veri esempi….. e se la soluzione per i calciatori fosse quella di diventare tutti un po’ più … rugbisti?

 

Per chi volesse saperne di più…

Fitts RH. Cellular mechanisms of muscle fatigue. Physiol Rev.74:49-94, 1994.

Kay D, Cannon J, Marino FE, St Clair Gibson A, Lambert MI, Noakes TD. Evidence for neuromuscular fatigue during cycling in warm humid conditions. Eur J Appl Physiol. 84:115-121, 2001.

Kirkendall DT. Mechanisms of peripheral fatigue. Med Sci Sports Exerc. 22:444-449, 1990.

Korge P., Campbell KB. The importance of ATPase microenvironment in muscle fatigue: a hypothesis. Int. J. Sports Med. 3: 172-179, 1995.

Reilly T. Motion characteristics in football. Blackwell Scientific publication, Oxford, pp 31-42, 1994.

St Clair Gibson A., Lambert EV., Hampson D., Noakes TD. Exercise and fatigue-control mechanism. International Sport Med J. 2(3): 54,56, 2001

Westerblad H., Lee JA., Lannergren J., Allen DG. Cellular mechanism of fatigue in skeletal muscle. Am. J Physiol. 261:C195-C209, 1991.

Williams R Skilful rugby. Souvenir press, London, 1976.

   
                     
                     
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