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Traumatologia sportiva
 
 
Il Trattamento fisioterapico degli ematomi muscolari
Gian Nicola Bisciotti Ph.; Pietro Cavazzini; Pier Paolo Lello
 

1) Facoltà di Scienze delle Sport Università Claude Bernard, Lione (F) Kinemove Rehabilitation Center 1, Pontremoli (I)
2) Kinemove Rehabilitation Center 2, Parma (I)
3) Kinemove Rehabilitation Center 3, La Spezia (I)

 

Introduzione

Un ematoma è per definizione una lesione di tipo traumatico, generalmente causata da un corpo di forma larga e smussata, che senza provocare lacerazioni a livello dell’epidermide, causa una compressione dei tessuti molli sottostanti. A fronte di tale meccanismo traumatico, il sangue può infiltrarsi nei tessuti sottostanti e dar luogo, in tal modo, ad un’ecchimosi, o raccogliersi in preesistenti cavità del tessuto connettivo interstiziale, in tal caso si parlerà di suggellazioni, oppure diffondersi nel tessuto cellulare lasso, dando luogo al fenomeno della suffusione, od ancora formare una raccolta sia a livello tissutale, che in un organo, in questo ultimo caso si tratterà di ematoma propriamente detto (Klein, 1990; O’Donoghe, 1984). Clinicamente i traumi contusivi sono classificabili in tre diversi gradi, dei quali il primo è caratterizzato dalla presenza di ecchimosi, il secondo dalla presenza di ematomi, mentre il terzo è contraddistinto da necrosi cutanea che esiterà nella formazione di una piaga con possibile presenza di febbre accompagnata, nei casi di maggior gravità, da shock. Tuttavia, un ematoma muscolare può essere causato, oltre che da un trauma contusivo diretto, anche da una rottura delle fibre muscolari stesse (Hutson, 1996; Klein, 1990; Williams, 1980). In entrambi i meccanismi lesivi descritti, trauma diretto o lacerazione indiretta delle fibre muscolari, si verifica un danno strutturale a carico sia del tessuto connettivale, che di quello vascolare, che si associa alla formazione dell’ematoma stesso (Bird e coll., 1997; Hutson, 1996). In ambito sportivo questi tipi di trauma sono maggiormente frequenti negli sport di contatto come il rugby, il calcio o la lotta (Rothwell, 1982) ed i distretti muscolari che fanno registrare la maggior frequenza d’insorgenza sono rappresentati dal bicipite brachiale e dal quadricipite femorale (Gray, 1977; Hutson, 1996; Williams, 1980).

I diversi tipi di ematoma

Esistono sostanzialmente due possibili tipi di ematomi muscolari: l’ematoma intramuscolare e quello intermuscolare.

L’ematoma intramuscolare è caratterizzato dall’integrità strutturale della fascia connettivale che riveste il muscolo stesso e che, di conseguenza, confina lo stravaso ematico all’interno del ventre muscolare interessato dal trauma (Bird e coll., 1997). Questa situazione provoca un aumento della pressione intramuscolare ed una conseguente compressione del letto capillare che contrasta il sanguinamento, mentre i conseguenti segni clinici e la sintomatologia rimangono localizzati al sito di lesione. Dal momento che la presenza di sangue può produrre un aumento del gradiente osmotico, il gonfiore può persistere, od aumentare, anche oltre le 48 ore successive all’evento traumatico (Peterson e Reström, 2001). Questo cambiamento del gradiente osmotico causa infatti un passaggio del liquido interstiziale attraverso la fascia muscolare allo scopo di riequilibrare il gradiente osmotico stesso; ovviamente questo comporta un ulteriore aumento del gonfiore del ventre muscolare lesionato sino ai limiti di estensibilità della fascia muscolare o del muscolo stesso (Norris, 2000; Reström, 2003). La principale sintomatologia collegata all’insorgenza di un ematoma intramuscolare è costituita da dolore soprattutto durante le prime 72 ore dall’insorgenza traumatica, diminuzione della contrattilità, decremento della funzionalità e dell’estensibilità muscolare, può inoltre comparire, nel giro di alcuni giorni, una zona livida (Klein, 1990).
In linea generale, in un muscolo contratto la contusione che provoca la lesione viene assorbita più superficialmente rispetto a quanto non avvenga in un muscolo rilassato, situazione nella quale il danno strutturale, ed il conseguente ematoma, si verificano generalmente in una zona adiacente alla struttura ossea,. Ciò è da imputarsi al fatto che la pressione dell’impatto viene trasmessa attraverso gli stati muscolari, sino a che il ventre muscolare non viene compresso contro la superficie ossea stessa. ( Crisco e coll., 1996; Garret, 1996; Garret e coll., 1987).

Nell’ematoma intermuscolare, al contrario, la fascia muscolare si presenta lesionata permettendo in tal modo allo stravaso ematico di fluire tra muscoli e fascia. Questo causa la formazione di una più o meno vasta zona livida e di gonfiore connessi all’entità del trauma (Peterson e Reström, 2001). Il cambiamento della colorazione dell’epidermide in corrispondenza dell’area di lesione ed il gonfiore sono in genere evidenti nel giro di poche ore dal trauma (Klein, 1990). Al contrario di quanto non avvenga nel già citato caso di ematoma intramuscolare, l’insorgenza di un ematoma intermuscolare provoca una sintomatologia algica limitata alle sole prime 24 ore post-traumatiche (Klein, 1990; Reström, 2003).

Diagnosi e prognosi

La diagnosi clinica di un ematoma superficiale si presenta piuttosto agevole grazie al rilevamento di una zona livida di variabile estensione in funzione dell’entità del trauma, contestuale a gonfiore e perdita della funzione muscolare. Al contrario la diagnosi clinica di un ematoma profondo può presentarsi molto più complicata (Klein, 1990; Smith e coll., 2006), in tal caso la diagnosi clinica deve necessariamente essere supportata dall’imaging, consistente in RM e/o esame ecotomografico, che si rivelano gli esami elettivi in tal senso. Tuttavia, la formulazione di una diagnosi precisa e definitiva nel caso di ematoma intramuscolare, diviene possibile solamente dopo 12-72 ore dall’evento lesivo, in quanto la formazione dell’ematoma può prolungarsi sino ad oltre tre giorni dopo il trauma, impedendo in tal modo una possibile diagnosi precoce definitiva (Gray, 1977; Klein, 1990).
Un decremento del gonfiore, una riduzione della sintomatologia dolorosa, l’apparizione di una zona livida nelle prime 24 ore post-traumatiche ed una ripresa della funzione muscolare, costituiscono degli indicatori che depongono per una prognosi favorevole (Klein, 1990). Al contrario, un incremento od una persistenza del gonfiore dopo 48-72 ore, un aumento della sintomatologia dolorosa, una diminuzione delle pulsazioni periferiche, una prolungata o progressiva limitazione dell’escursione articolare causata dal dolore o dalla debolezza muscolare, un senso di intorpidimento e/o parestesia al di sotto della zona di lesione, costituiscono tutti degli indici prognostici negativi (Klein, 1990; Smith e coll., 2006). In ogni caso la prognosi è migliore nel caso di ematoma intermuscolare rispetto all’ematoma intramuscolare (Reström, 2003). Nel caso di ematoma intermuscolare, infatti, soprattutto se il trauma viene trattato attraverso una terapia basata sulla mobilizzazione precoce, il paziente può riprendere l’attività sportiva in un periodo compreso, in funzione dell’entità del trauma, tra 1 e 13 settimane (Jakson e Feagin, 1973, Peterson e Reström, 2001: Prentice, 2004; Ryan e coll., 1991). L’ematoma intramuscolare invece, sempre ovviamente in correlazione all’entità del trauma, richiede di norma una maggiore cautela per ciò che riguarda il piano riabilitativo post-traumatico, soprattutto in funzione della possibile insorgenza della sua complicanza più temibile che è costituita dalla miosite ossificante. Per questo motivo, nel caso di ematoma intramuscolare, il ritorno all’attività sportiva non è in genere possibile prima di un periodo compreso tra i 2 ed i 5 mesi (Jakson e Feagin, 1973; Peterson e Reström, 2001: Prentice, 2004; Ryan e coll., 1991).

La miosite ossificante e le ulteriori possibili complicanze

La miosite ossificante (MO) rappresenta una della complicazioni più gravi nel quadro dell’ematoma intramuscolare (Gray, 1997; Lachman e Jenner, 1994; Williams, 1980), la cui insorgenza può fortemente limitare funzionalmente il soggetto, complicandone notevolmente il piano di recupero e dilazionando in tal modo fortemente il suo ritorno alla pratica sportiva. La MO è costituita da una formazione ossea eterotopica, di natura non neoplastica, formata da tessuto sia di natura fibrosa, che ossea e cartilaginea, localizzata all’interno dei tessuti molli. Esistono quattro tipi di MO:

-la prima, e la più frequente, è la miosite ossificante circoscritta (MOC), che illustreremo dettagliatamente in seguito.
-il secondo tipo è rappresentato da una forma di MO associata a disordini di ordine neurologico e/o danno spinale.
-il terzo tipo è la MO pseudomaligna la cui diagnosi va differenziata con quella di osteosarcoma extra-osseo.
-il quarto ed ultimo tipo è costituito da una rara forma di MO, la Fibroplasia Ossificante Progressiva, caratterizzata dalla formazione di ossificazioni eterotopiche in diverse zone periarticolari.

La MOC, come prima accennato, rappresenta la più diffusa tra tutte le differenti forme di MO, è una forma localizzata ed autolimitante, secondaria a traumi di tipo contusivo, termici, oppure iatrogeni, come ad esempio in conseguenza ad interventi chirurgici (Buckwalter, 1994). Anche una pregressa storia di reiterati traumi contusivi nella stessa sede anatomica, può essere la causa d’insorgenza della MOC (Prentice, 204). I muscoli maggiormente interessati in ambito sportivo, come conseguenza di trauma contusivo penetrante, sono il quadricipite femorale (in particolar modo il vasto laterale), gli adduttori della coscia ed il bicipite brachiale Nella MOC al danno iniziale, conseguente al trauma contusivo, fa seguito una tumefazione dei tessuti molli che, in un periodo di tempo compreso tra uno e due mesi, evolve nella formazione di una massa solida contestuale all’insorgenza di una sintomatologia algica nella stessa sede (Naraghi e coll., 1996). Da un punto di vista eziologico, l’ipotesi più accreditata, anche se non certa, nei riguardi dell’insorgenza della MOC è che l’evento traumatico possa indurre una trasformazione a carico cellule mesenchimali rendendole multipotenti e provocando, in tal modo, una trasformazione dei fibroblasti in osteoblasti (Hutson, 1996). Il paziente presenta una significativa riduzione delle capacità di movimento associata a gonfiore ed alterata consistenza del ventre muscolare alla palpazione. La presenza di tumefazione e la stessa natura infiammatoria della MOC, inducono a porre una diagnosi differenziale con un quadro tromboflebitico, tumorale od infettivo (Uematsu e coll., 2004).
La diagnosi clinica viene confermata dall’esame radiografico, anche se la formazione calcifica inizia a divenire radiologicamante evidente solamente dopo un periodo di tempo compreso tra le tre e le sei settimane successive al trauma (Peterson e Reström, 2001). Il deposito di calcio può formarsi all’interno del ventre muscolare o creare una sorta di “spina” che si proietta esternamente rispetto al sottostante profilo osseo. Per ciò che riguarda l’evoluzione temporale della patologia, si assiste, all’incirca verso la terza/quarta settimana, allo sviluppo della massa calcifica ed al contestuale inizio del processo di ossificazione, successivamente, in sesta/ottava settimana, è osservabile una corticale ossea organizzata e definita. Oltre all’evidenza radiografica, un ulteriore indicatore sensibile, in grado di permette una diagnosi precoce di MOC, è rappresentato dai livelli serici di fosfatasi alcalina, che sovente subiscono un aumento in concomitanza al peggioramento dei sintomi ed all’ingravescenza del quadro radiografico. Tuttavia, occorre ricordare che, dal momento che un aumento della fosfatasi alcalina può essere legato anche ad altri quadri clinici, il suo dosaggio non rappresenta comunque un test specifico nel caso di MOC. Anche nella valutazione radiologica, è necessario sottolineare che il reperto radiografico maggiormente patognomonico in caso di MOC, è costituito dal cosiddetto “fenomeno zonale”, ossia dalla configurazione di un’area radiotrasparente situata al centro della lesione (indicante la formazione di osso immaturo) circondato da una densa zona di ossificazione periferica. Inoltre, una sottile zona radiotrasparente separa la massa ossificata dall’adiacente corticale. Tuttavia, talvolta il focus della MOC, può fondersi con la corticale stessa, dando vita ad un quadro radiologico suggestivo per osteosarcoma parostale , in tal caso gli esami dirimenti sono rappresentati da TAC ed esame bioptico (Wang e coll., 1999). Ulteriori complicazioni di un quadro di MOC sono la cancerizzazione, la frattura e l’impingement neurovascolare.
Il trattamento dipende dallo stadio al quale il quadro clinico si situa, in ogni caso inizialmente è indicato un approccio di tipo conservativo che dal punto di vista farmacologico può prevedere l’assunzione di indometacina, aspirina o FANS (Oz e Boneth, 1994) oltre, talvolta, alla prescrizione di terapia radiante a basse dosi, quest’ultima soprattutto indicata a scopo preventivo al fine di impedire la formazione di deposito calcifico in seguito a trauma od intervento chirurgico (Seegenschmiedt e coll., 1993). In caso di fallimento della terapia conservativa, è prevista l’escissione chirurgica, che comunque non può essere effettuata prima che la zona di lesione non si sia stabilizzata, ossia non prima di un periodo compreso tra i sei ed i dodici mesi. L’escissione chirurgica è comunque d’obbligo in caso di:

-Impingement neurovascolare
-Diagnosi non certa con sospetto di formazione neoplastica maligna
-Cancerizzazione
-Forte sintomatologia algica
-Importante limitazione del ROM

Una complicanza aggiuntiva di un ematoma intra od intermuscolare è rappresentata dalla possibile insorgenza di una formazione cistica, che può sopravvenire nel caso in cui il liquido al centro dell’ematoma non venga riassorbito. In tal caso spesso si rende necessaria un aspirazione chirurgica (Wiliams, 1980).
Infine, nel caso di una pre-esistente infezione ossea od ematica, è possibile incorrere in un conseguente processo infettivo a carico dell’ematoma stesso, evenienza che viene comunemente trattata tramite terapia antibiotica e drenaggio chirurgico (Williams, 1980).

 

I trattamenti fisioterapici

I diversi tipi di trattamento fisioterapici sono sostanzialmente riassumibili in riposo, crioterapia compressione ed elevazione dell’arto traumatizzato (modalità riassumibili nell’acronimo RICE: Rest, Ice, Compression, Elevation) associati a terapia di contrasto termico, massaggio, ultrasuonoterapia, ipertermia ed esercizio attivo.

 

Riposo ed elevazione dell’arto leso

Il riposo è consigliabile nelle prime 24-72 ore susseguenti all’evento traumatico (Peterson e Reström, 2001), al fine di prevenire ulteriori emorragie ed aggravamento dei danni fibrillari nella sede della lesione, permettendo in tal modo un miglior esito cicatriziale (Reström, 2003). Alcuni Autori raccomandano, in caso di importante ematoma a carico dell’arto inferiore, l’astensione totale dal carico per 48 ore (Lachmann e Jenner, 1994; Reström, 2003). La durata del periodo di riposo dipende dall’entità del trauma e dalla sintomatologia algica del paziente. E’ importante ricordare che il paziente, una volta in via di risolvenza la sintomatologia dolorosa, venga incoraggiato nella mobilizzazione, seppur cauta, dell’arto leso (Reström, 2003; Peterson e Reström, 2001). Anche l’elevazione dell’arto leso può concorrere alla risoluzione dell’ematoma riducendo la pressione arteriosa ed aumentando il ritorno venoso (Williams, 1980: Gray, 1977; Reström, 2003; Peterson e Reström, 2001).

La compressione della zona di lesione

Il razionale di applicazione di un bendaggio compressivo sulla zona lesionata, è basato sulla facilitazione di evacuazione ematica dall’area interessata dall’ematoma e dal tentativo di limitare un’ ulteriore emorragia (Klein, 1990; O’Donoghe, 1984; Peterson e Reström, 2001).
Il bendaggio compressivo andrebbe mantenuto per un periodo compreso tra i 2 ed i 7 giorni, e comunque non abbandonato sino a quando non sia apprezzabile una cospicua diminuzione del gonfiore e la cessazione della fluttuazione della massa palpabile (Thorsson e coll., 1987; Thorsson e coll., 1997). L’entità della compressione causa differenti tipi di risposte nel sito della lesione: un’elevata compressione, pari a circa 85 mmHg, sortisce come effetto una cessazione immediata del flusso ematico intramuscolare al di sotto dell’area di compressione stessa, mentre una compressione più modesta, dell’ordine di 40-45 mmHg, riduce il flusso ematico di circa il 50%. In bibliografia, a nostra conoscenza, non sono ad oggi presenti studi inerenti l’entità di un bendaggio compressivo ottimale da effettuarsi in caso di ematoma intra od intermuscolare.

La crioterapia

Il raffreddamento di una zona corporea comporta una complessa risposta fisiologica i cui elementi principali possono essere riassunti in:

-vasocostrizione
-analgesia
-riduzione dell’edema e della contrattura muscolare

Questa iniziale modalità di risposta induce a sua volta:

-una diminuzione del flusso sanguigno capillare
-un miglioramento del drenaggio linfatico
-una riduzione del metabolismo locale
-una riduzione della liberazione enzimatica
-una diminuzione della liberazione di instamina
-una diminuzione della velocità di conduzione nervosa ed una modificazione dell’attività simpatica

La crioterapia nel caso di un ematoma ha come obiettivi la limitazione della formazione dell’ematoma stesso, indurre un decremento del flusso sanguigno, una riduzione dell’edema, dello spasmo muscolare e del metabolismo all’interno dell’area sottoposta a raffreddamento (Fu e coll., 1997; Hurme e coll., 1993; Low e Reed, 2000).
In particolar modo, l’abbassamento della temperatura causa un aumento della viscosità sanguigna che determina, a sua volta, una riduzione sia del flusso ematico, che della permeabilità vasale, già accresciuti dal trauma, all’interno dell’area sottoposta a raffreddamento. Queste riposte fisiologiche indotte dal freddo, costituiscono i meccanismi chiave nella riduzione della formazione dell’edema e della reazione infiammatoria (Low e Reed, 2000). Inoltre, è importante ricordare come secondo alcuni Autori, l’applicazione del freddo su di un zona lesionata, sarebbe in grado di ridurre l’edema grazie all’incremento del diametro venoso, fattore che comporterebbe un aumento dell’area fisiologicamente adatta al riassorbimento ed al filtraggio dei fluidi (Smith e coll., 1993).
Un punto cruciale nell’ambito della crioterapia, è costituito dalla durata del raffreddamento. Il raffreddamento di un’area corporea integra dal punto di vista strutturale, provoca inizialmente una vasocostrizione riflessa, la cui durata si protrae per un periodo variabile compreso tra i 9 ed i 16 minuti, a questa fa seguito una fase vasodilatatoria la cui durata è compresa tra i 4 ed i 6 minuti, dopo la quale ricompare nuovamente vasocostrizione. Questo giustificherebbe una durata di applicazione della crioterapia di almeno 20 minuti (Meani e coll., 1979).
Tuttavia, nel caso di lesione, occorre evitare la fase vasodilatatoria susseguente alla prima fase vasocostrittiva. Per questo motivo applicazione di ghiaccio su di un ematoma, dovrebbe avere una durata di circa 12 minuti e mai comunque andare al di la dei 15, a cui far seguire una fase d’interruzione di circa 10 minuti. La durata complessiva del trattamento crioterapico deve comunque essere commisurata all’entità della lesione (Lindsey, 1990), anche se occorre dire che vi è una drastica mancanza di indicazioni scientificamente attendibili in tal senso, che lasciano purtroppo ampio spazio all’empirismo (Bleakeley e coll., 2004). In ogni caso la crioterapia appare particolarmente indicata nelle prime 24 ore post-traumatiche ( Gray, 1977; Williams, 1980; Klein, 1990; Lachmann e Jenner, 1994;Peterson e Renström, 2001; Prentice, 2004).

La terapia a contrasto

La terapia a contrasto, altrimenti denominata criocinetica, consiste nell’esposizione della parte lesa ad un’alternanza di basse ed alte temperature per un lasso di tempo piuttosto contenuto, dell’ordine di circa 2 minuti per ciascuna fase . Le temperature normalmente utilizzate in quest’ambito sono di circa 4° C per ciò che riguarda le basse temperature e circa 38° C per le alte. Generalmente all’applicazione del trattamento, in funzione dell’effetto analgesico ottenuto ed al contestuale miglioramento della circolazione periferica, fa seguito ad una serie di esercizi di mobilizzazione attiva (Nanneman, 1991). Il razionale di applicazione della terapia contrasto, che viene effettuata soprattutto nelle 24 ore post-traumatiche, è sempre quello di diminuire l’edema, la sintomatologia algica ed il processo infiammatorio susseguenti alla formazione dell’ematoma, oltre che indurre un incremento della circolazione e dell’elasticità tissutale (Low e Reed, 2000).

Il massaggio

In linea di principio il massaggio è controindicato sia nel caso di ematoma intramuscolare che intermuscolare, in funzione di una possibile recrudescenza dell’emorragia (Klein, 1990). Tuttavia, occorre sottolineare come, a nostra conoscenza, manchino dal punto di vista bibliografico dei trials che attestino i possibili danni od i benefici della pratica del massaggio nel caso di ematoma muscolare.

La termoterapia endogena

La termoterapia endogena (TE) si basa sul principio di applicazione delle onde elettromagnetiche. Le oscillazioni che le onde elettromagnetiche provocano a livello ionico, inducono un trasferimento di energia cinetica all’interno del distretto corporeo interessato, che viene prontamente trasformata in calore. Questo effetto di produzione di calore all’interno dei tessuti, causato dalla trasformazione energetica delle onde elettromagnetiche, viene definito effetto Joule. Le apparecchiature utilizzate per la termoterapia endogena, altrimenti definibile con il termine di diatermia, possono basarsi sull’utilizzo di onde corte (Marconi terapia e Trasferimento Energetico Capacitivo e Resistivo), oppure avvalersi delle micro-onde (Radar terapia ed Ipertermia Computerizzata e Termostatizzata).
In ogni caso la TE, ma comunque ogni forma di applicazione di calore anche di tipo esogeno, è indicata solamente nella fase di risoluzione dell’ematoma e comunque mai prima del terzo giorno post-traumatico. Il razionale applicativo delle varie forme di TE si basa sull’accelerazione del rateo di assorbimento dell’ematoma, dovuto all’incremento della circolazione sanguigna indotto dall’aumento della temperatura (Klein, 1990; Lehmann e coll., 1983; Low e Reed, 2000; Peterson e Reström, 2001).

L’ultrasuonoterapia

L’ultrasuonoterapia (US), oltre ad accelerare la proliferazione cellulare e la sintesi proteica, possiede un effetto di tipo emulsivo, che consiste nella possibilità di indurre la frammentazione di molecole di grosse dimensioni, quali gli agglomerati di calcio e le proteine, che si ritrovano frequentemente negli ematomi e nelle flogosi (Gray, 1977; Lachmann e Jenner, 1994; Rantanen e coll., 1999; Williams, 1980). Tuttavia, le modalità per ciò che riguarda la frequenza, la potenza e la durata dell’ applicazione, non sono ben definiti dai diversi trails reperibili in bibliografia, anche se la maggior parte degli Autori sembra accordarsi sui 3 MHz in modalità pulsata (1:5) per ciò che riguarda la frequenza, su 1 – 1.5 W/cm2 per quello che riguarda la potenza di erogazione e su 5-6 minuti di applicazione totale (Low e Reed, 2000; Gombini e coll., 2001; Wilkin e coll., 2004; Smith e coll., 2006).

L’esercizio terapeutico

L’esercizio fisico, sotto forma di caute contrazioni isometriche, è proponibile sin dal secondo giorno successivo all’evento traumatico, il suo scopo è quello di accelerare sia il recupero di un completo range di movimento, che il riassorbimento dell’ematoma. Occorre tuttavia sottolineare di come i movimenti proposti non debbano causare l’insorgenza di sintomatologia algica, al fine di prevenire l’eventuale insorgenza di calcificazioni e/o ossificazioni eterotopiche (Klein, 1990). La progressione nell’ambito delle esercitazioni proposte, deve evolvere poi verso esercitazioni di tipo concentrico ed infine eccentrico.

 

Conclusioni

La gestione di un ematoma richiede una strategia terapeutica ben precisa che deve necessariamente rispettare i tempi di maturazione della lesione. Soprattutto estrema cautela deve essere posta nel piano riabilitativo inerente alla formazione di un ematoma intramuscolare. In questo caso, una particolare attenzione deve essere posta al fine di evitare la sua complicazione più temibile che è rappresentata dall’insorgenza della MOC. Inoltre durante il programma riabilitativo è consigliabile una frequente monitorizzazione strumentale (ETG od RM) dell’evoluzione del riassorbimento dell’ematoma stesso, al fine di poter ottimizzare la strategia fisiochinesiterapia adottata.

 

 

Figura 1: ematoma intramuscolare in proiezione a carattere intra-compartimentale, delle dimensioni di34x20 mm circa, di estensione cranio caudale di 10 cm circa, con componente periferica emosiderinica, a livello del capo mediale del gastrocnemio.

 

 

 

Figura 2: serie ecografica  effettuata a livello del 1/3 medio della componente muscolare del vasto mediale in un soggetto ventenne calciatore, in esiti di trauma lacerativo, che evidenzia la presenza di una sottile quota fluida paracentrale ipoanecogena di 31X7X4 mm, nel cui contesto si rilevano ponti di fibrina e micro focolai di organizzazione della raccolta siero ematica. L’esame ecotomografico è stato effettuato a 40 giorni dall’evento lesivo, il soggetto non aveva effettuato nessun tipo di trattamento FKT.

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